Dall’Ecuador un fungo capace di degradare la plastica
Può un fungo risolvere uno dei grandi problemi d’inquinamento dell’uomo? Sì, almeno secondo gli studenti del Department of Molecular Biophysics and Biochemistry della università di Yale.
Il gruppo di ragazzi, partiti qualche anno fa per una spedizione di studio nella foresta pluviale, non pensava di tornare a casa con una scoperta che potrebbe rivoluzionare molti aspetti della lotta all’inquinamento: un fungo che pare abbia la peculiarità di nutrirsi di poliuretano.
Il suo nome scientifico è pestalotiopsis microspora, della famiglia degli ascalomiceti (conosciuta, in realtà, già dal 1995) che, in assenza di ossigeno è in grado di degradare quella plastica ritenuta non riciclabile. Questo lo renderebbe, non solo un ottimo alleato nelle discariche, ma anche un ottimo oggetto di studi per provare a risolvere il problema dei rifiuti plastici marini.
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Com’è noto da anni, infatti, galleggia tra l’oceano Pacifico e l’Indiano un’isola di detriti (per lo più plastici), delle dimensioni della penisola iberica, che si chiama garbage patch, dovuta all’accumulo a partire dagli anni ’50 dei rifiuti plastici abbandonati nel mare, che si aggregano a formare un enorme “vortice” di spazzatura che galleggia sulla superficie oceanica.
Secondo il National Center for Biotechnology Information e il professor Strobel – che ha gestito il viaggio e la scoperta – questa plastica, pur non essendo biodegradabile, sotto l’influenza di raggi UV, si frammenta in microparticelle particolarmente tossiche per gli organismi marini.
In molti hanno provato a sviluppare ipotesi e teorie, per lo più strutturali, sul come riuscire ad eliminare questa gigantesca massa di rifiuti tossici, senza per questo trovare una soluzione accettabile o veramente funzionale.
Dal giorno della scoperta ad oggi i ricercatori di Yale sono riusciti a sintetizzare l’enzima degradante, comprendendone a pieno il meccanismo ed ora stanno provando a modificarlo affinché funzioni anche in presenza di ossigeno così da utilizzarlo per avviare il processo di conversione di questa gigantesca isola di immondizia che mette ancora più a rischio i nostri mari già tormentati.
In attesa di una soluzione non possiamo che incrociare le dita e sperare che, ancora una volta, sia la natura ad aiutarci a risolvere i danni che noi stessi le procuriamo.
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Ultimo aggiornamento il 23 Marzo 2024 da Rossella Vignoli
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