La pesca selvaggia porta all’esaurimento degli stock ittici nonostante divieti e leggi specifiche
Immaginate un mondo senza pesce. Difficile? Mica tanto, perché è quello che di fatto sta già succedendo. Non è più un mistero che i nostri mari si stiano svuotando.
Anche le Autorità internazionali se ne sono accorte e stanno cercando di risolvere in qualche modo la questione. E’ del dicembre 2013 il voto negativo del Parlamento Europeo sulla messa al bando definitiva della pesca a strascico, uno dei metodi di pesca più selvaggi e dannosi per l’ambiente.
In Canada dal1992 è scomparso il merluzzo nelle sue acque, fenomeno che ha ingenerato un divieto totale di pesca nel Paese. Anche gli stock ittici di Mar Baltico e Mare del Nord sono vicini al collasso, eppure in diverse parti del mondo si continua ancora a pescare trascinando le reti sui fondali.
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La pesca a strascico non è selettiva; questo significa che nelle maglie delle reti finiscono anche pesci non commerciabili, non commestibili o troppo giovani per essere venduti ma di grande importanza per l’equilibrio marino; per non parlare di coralli e spugne, insomma un vero disastro per l’ecosistema.
Già dal 1998 era stato avvertito un forte calo, dichiarato a gran voce soprattutto dalle associazioni ambientaliste, ma è stato solo nel 2002 che il problema ha iniziato ad essere affrontato nei palazzi del potere.
Nel vertice del Lussemburgo del 2012, l’ICCAT, la Commissione Internazionale per la Conservazione dei Tonnidi dell’Atlantico, ha presentato un piano di graduale ricostituzione dello stock, proponendo la cattura di un massimo di 10.000 esemplari annui.
Numero che poi è stato aumentato a 30.000 unità, e questi sono dati legali mentre il ‘sommerso’ fa supporre che l’industria abbia raggiunto i 61.000, ovvero sei volte in più rispetto a quanto auspicato dall’ICCAT.
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L’estinzione di alcune specie di pesce non porta soltanto alla ridistribuzione della nostra dieta; comporta anche la ridefinizione degli equilibri all’interno del sistema marino e alla crisi di un comparto fondamentale per l’economia di molti paesi.
L’estinzione del merluzzo bianco in Canada ha già portato alla perdita di 40.000 posti di lavoro. E oggi in Africa più di 1 miliardo di persone si sostenta attraverso la pesca.
I grandi pescherecci, soprattutto le tonnare, che depredano il Mediterraneo, stanno causando uno squilibrio nelle abitudini di vita dei piccoli pescatori africani che sono costretti a emigrare per trovare lavoro.
E non è finita qui: ci sono ancora tonnare che sorvolano le acque in cerca di banchi, nonostante sia illegale da ben 10 anni.
Tokyo, è il maggior luogo di consumo e pesca del tonno rosso, pesce estremamente pregiato, la cui carne è molto apprezzata dagli amatori del sushi. Una carne per cui la nota azienda di auto Mitsubishi detiene il monopolio, impostandone il prezzo in tutto il mondo.
Nel Mar Mediterraneo la presenza di tonno rosso è calata del 97%, ma vige ancora il finning una pratica cruenta che consiste nel tagliare le pinne dei tonni per poi ributtarli in mare lasciandoli morire dissanguati; nonostante sia stata resa illegale dall’Unione Europea nel 2003 (ne abbiamo parlato nel post: Stimati in 100 milioni gli squali uccisi nel mondo in un anno).
Viene ancora utilizata da diversi pescherecci, portoghesi e spagnoli, che ne commerciano le carni col Giappone.
Le aree coinvolte sono Malta, e più in generale tutto il Mediterraneo, l’Atlantico e il Mar del Giappone, sono i luoghi di maggior pesca.
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Nel 2003 è stato dichiarato l’ufficiale stato d’allerta con 1/3 della popolazione ittica mondiale chiamata all’estinzione.
Si prospetta che entro il 2048 si arriverà allo zero assoluto, perché nel momento stesso in cui una specie di estingue, l’essere umano si rivolge ad un’altra. Ed è così che sono state dichiarate in pericolo anche specie una volta pregiate come le aragoste, i gamberetti e le capesante.
E non è finita qui: il 40% del pesce selvatico spesso diventa farina per il pesce d’allevamento: uno spreco insostenibile! Ci vogliono circa 5 kg di alici per averne uno di salmone. Quando invece i rimedi sarebbero molto semplici.
Innanzitutto, allargare le maglie delle reti; questo impedirebbe almeno il bycatch delle speci giovanili, ovvero la cattura accidentale di quei pesci necessari all’ecosistema ma non alla tavola.
Poi applicare il fermo biologico. Ovvero un sano periodo di fermo totale della pesca, che consenta il ripopolamento delle specie; qualcosa che in Alaska già fanno e senza evidenti difficoltà. Al merluzzo bianco del Canada sarebbe bastato un fermo biologico, in quanto è un pesce estremamente prolifico ma che ci mette tempo per riprodursi.
Anche la definizione di riserve naturali è fondamentale. Ad oggi solo l’1% del mondo marino è sotto la nostra protezione ambientale, dovremmo fare di più, dovremmo arrivare a circa il 20%-30% per sperare in un recupero.
La diminuzione della quantità e qualità del pescato, diventa un problema anche dal punto di vista climatico: perché un mare poco saldo è anche un mare che non riesce ad affrontare le catastrofi naturali.
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Già alcune note aziende multinazionali come Birds Eye (il nostro Findus, per intenderci) e McDonald’s hanno dichiarato di comprare il 90% del loro pesce da fonti sostenibili. Ma possiamo fare qualcosa anche noi.
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Negli Stati Uniti il marchio MSC attesta un pesce eco-sostenibile, in Europa il club Fish2Fork è una guida ai ristoranti che si riforniscono solo presso pescatori responsabili. E in Italia? Il presidio Slow Food fornisce una serie di liste certificate, per aumentare la nostra conoscenza e consapevolezza.
Ultimo aggiornamento il 29 Luglio 2024 da Rossella Vignoli
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